I videogiochi sono parte integrante della cultura contemporanea. E’ elevatissimo il numero di persone che oggigiorno, seppur con fini e ritmi differenti, si cimentano nella nobile attività del “videogiocare”.
Non dimentichiamo l’enorme mole di prodotti che vanno oltre il gioco stesso, e che ruotano intorno ad esso come un universo. Credo sia difficile da stimare l’esatto numero di contenuti esistenti, ma una cosa è certa: tutti vogliono parlare di videogiochi e ne vogliono sapere di più.
Tuttavia, con il passare del tempo, ho notato non poca ignoranza per quanto riguarda questo settore e per il contesto ludico in generale.
Per tale ragione – e per soddisfare la curiosità di chi si chiede “ma cosa c’è dietro?” – ho deciso di dar vita ad una rubrica in cui poter parlare di Game Studies e, perché no, di Game Design, condividendo con i lettori ciò che ho imparato (e che sto ancora imparando) nel corso della mia carriera come game designer e redattore.
Per questo primissimo appuntamento farò affidamento su “Game Design: Gioco e Giocare tra teoria e progetto”, un testo che ritengo discreto e che probabilmente ritornerà anche nei prossimi appuntamenti. Prima di procedere è necessario rendere noto che cercherò di tenere le mie idee ed impressioni lontane dai temi che affronteremo, limitandomi a esporre e chiarire gli argomenti.
Senza ulteriori indugi, iniziamo questa avventura rispondendo alla prima domanda.
Cosa sono i Game Studies?
Lo so, partire da cose così noiose non è il massimo, ma abbiate fede. D’altro canto, penso che prima di dedicarsi a cose più “tangibili” faccia bene avere una base teorica. I Game Studies sono una disciplina costituitasi solo di recente, più precisamente alla fine del XX secolo.
Il loro scopo è quello di studiare le forme della pratica ludica e le sfaccettature della relazione tra gli umani e il gioco.
In essi confluiscono i saperi di discipline diverse tra loro e proprio alla diversità degli ambiti di origine dei protagonisti coinvolti è legata la principale criticità: l’assenza di un vocabolario ben definito e condiviso. In realtà è una situazione che definirei “naturale”, i Game Studies d’altronde sono un campo ancora giovane e nato dall’incontro di linguaggi anche molto diversi.
Ma non temete, i lavori procedono e piano piano sono sicuro che le questioni terminologiche verranno risolte.
Alcuni nomi da ricordare
Come in ogni disciplina anche nei Game Studies sono presenti figure che rappresentano pietre miliari, a cui volgere la propria attenzione nell’arco dei propri studi. Quindi, proviamo a scoprire qualche nome e a memorizzarlo.
Il primo autore che devo citare assolutamente è Johan Huizinga, antropologo olandese che scrisse “Homo Ludens”. Huizinga sostiene che il gioco è indispensabile sia per l’individuo che per la società. Attraverso un’accurata analisi di diversi ambiti della vita sociale, infatti, egli arriva ad affermare che l’intera cultura umana – in tutte le sue sfaccettature – non è altro che un insieme di diverse evoluzioni e manifestazioni del gioco. Da qui, si può giungere alla conclusione che l’essere umano è homo ludens, espressione che dà il titolo alla sua opera.
Sempre a Huizinga, inoltre, dobbiamo il tentativo di trovare una definizione di gioco, ma questo sarà un argomento i prossimi paragrafi.
Facciamo un passo avanti nel tempo e parliamo di Roger Caillois, che ha scritto “Il gioco e gli uomini”. Caillois ha notato che il gioco può essere affrontato in modi differenti, arrivando ad individuare due atteggiamenti: paidia e ludus.
Con “paidia” ci si riferisce “al giocare spensierato e sfrenato tipico dei cuccioli di molte specie, la nostra inclusa”. All’opposto, il “ludus” è “un giocare serio, intento, rigidamente regolato come può essere quello di uno scacchista”. Questi due atteggiamenti rappresentano gli estremi di quello che possiamo chiamare “asse dell’atteggiamento di gioco”, all’interno del quale ci si posiziona quando si è intenti nell’attività ludica.
Caillois ha anche individuato quattro tipologie di gioco: agon, alea, mimicry e ilinx. Agon è il gioco in cui si compete contro altri o se stessi, mettendo in gioco le proprie facoltà fisiche o intellettuali. Alea, invece, è il gioco in cui ci si confronta con il caso, l’aleatorietà degli eventi. Mimicry è l’interpretazione di un ruolo altro, il gusto di indossare una maschera e agire diversamente dal solito. Infine, con ilinx abbiamo “la vertigine che ci prende quando ci lasciamo andare a quella specie particolare di follia che nel gioco sovverte le regole di ordine e prevedibilità del mondo”.
Queste quattro categorie, ovviamente, non sono che un primo passo verso la classificazione del gioco, così da costruire una base più solida per le ricerche e l’analisi.
L’ultimo nome su cui oggi voglio far posare la vostra attenzione (per questa parte ndr.) è quello di Eugene Fink. Desidero che vi ricordiate di Fink per due fattori in particolare.
Il primo, senza ombra di dubbio, è il suo ribadire l’importanza del gioco nella vita dell’uomo, riprendendo Huizinga e opponendosi al “compatto dispositivo dequalificante” che tutt’ora esiste.
Il secondo elemento che mi piace ricordare è una sua citazione: “Il gioco regala il presente”. Quando giochiamo, ci liberiamo dalla ricerca di un risultato futuro (materiale o meno che sia) e dalla tensione che ne consegue, dedicandoci unicamente a quel momento ludico. Si tratta di un’affermazione che qualcuno potrebbe aggirare, tuttavia la trovo utile e poetica, soprattutto perché ci ricorda che il gioco (ma ancor di più il videogioco) ci consente di alienare lo stress della vita quotidiana e compiere azioni senza ricadute sulla stessa.
Il gioco tra attività e artefatto
Giungiamo quindi al tema più importante di questo appuntamento, nonché il più difficile: definire il gioco. Ebbene, come avete avuto modo di leggere, i Game Studies stanno ancora definendo il proprio glossario e, pertanto, non c’è da stupirsi se ancora non c’è una definizione di gioco comune a tutti (e questo vale anche per chi opera nell’industria videoludica ndr.). Proprio in ragione di ciò – e conscio del fatto che non mi basterebbero tre anni di speciali per esporre e spiegare tutte le definizioni che ho letto – ho deciso di affrontare la questione del definire il “gioco” in un altro senso, che trovo più interessante. In che senso? Semplice, voglio esplicitare la differenza tra il gioco come attività (play) e il gioco come artefatto (game). Sia ben chiaro, questa operazione non risolve tutte le controversie o riduce il numero di definizioni possibili, ma ci permette di affrontare un’importante questione terminologica (soprattutto per lingue come la nostra).
Per la definizione di gioco come attività desidero fare riferimento al già citato Huizinga, il quale ci dice che il gioco si configura come: “un’azione libera: conscia di non essere presa ‘sul serio’ e situata al di fuori della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie dentro un tempo e uno spazio definiti di proposito che si svolge con ordine secondo date regole”.
Lo so gente, sembra un casino, ma cerchiamo di capirla riassumendo i concetti chiave. Innanzitutto, sappiamo che il gioco è un’attività volontaria e libera, se si è costretti a giocare allora non si sta giocando. Oltretutto il gioco si svolge fuori dalla vita quotidiana e per questo è “non serio”, non perché si tratta di un’attività trascurabile o superficiale. In ogni caso può assorbirci totalmente, benché non abbia ricadute sul piano materiale. Infine, si svolge all’interno di confini spazio-temporali ben definiti, secondo determinate regole. Ecco, spero che così sia più chiaro. Comunque, vi ricordo ancora una volta che questa non è che una delle definizioni e non quella assoluta.
Per parlare del gioco come artefatto, invece, tiriamo in ballo Salen e Zimmerman, che lo descrivono come “un sistema al cui interno i giocatori si impegnano in un conflitto artificiale, ben definito da regole, che porta ad un risultato quantificabile”.
Una definizione abbastanza “semplice”, ma cerchiamo di spiegare meglio questo “sistema-gioco”. Per prima cosa, il sistema è composto da oggetti, ovvero elementi di natura fisica o astratta. E’ caratterizzato da attributi, cioè qualità o proprietà appartenenti al sistema o ai singoli oggetti. A loro volta, gli oggetti hanno relazioni tra loro. A ciò possiamo aggiungere che il sistema è in relazione con l’ambiente in cui si trova, influenzandolo e vendendone influenzato.
Un’ultima nota è relativa al risultato, che deve essere dotato di un giusto grado di incertezza, altrimenti l’atto di giocare perderebbe di significato e interesse – immaginate di giocare pur sapendo chi vincerà e chi perderà già dal principio.
Concludiamo riprendendo la definizione di Salen e Zimmerman, ma mutuando da Huizinga il concetto di “attività volontaria”, la definizione diventa quindi: “un sistema al cui interno i giocatori scelgono di impegnarsi in un conflitto artificiale ben definito da regole, che porta a un risultato quantificabile”. Finalmente ci siamo, abbiamo un paio di definizioni, utili almeno per operare una distinzione e “risolvere” una questione terminologica.
Tiriamo le somme
Siamo giunti alla fine di questo primo appuntamento, che spero vi abbia divertito e aperto un po’ la mente.
Vi ringrazio di aver dedicato del tempo a questa lettura e invito tutti a condividere le proprie opinioni e i propri dubbi. Inoltre, se qualcuno ha notato delle inesattezze, l’invito è a farsi avanti così che io possa fare le dovute correzioni
Nel prossimo appuntamento parleremo di cerchi magici e flussi, quasi fossimo degli sciamani. Insomma, ne vedremo delle belle. Detto ciò, ci vediamo alla prossima con “A scuola di Videogiochi”.